IL "CONSENSO DISINFORMATO" E LA RESPONSABILITA' CIVILE DEL MEDICO
La diligenza del medico in materia di responsabilità professionale, fa riferimento non solo alla
esecuzione della prestazione dovuta, ma anche alla doverosa informazione, da parte del
sanitario nei confronti del suo assistito, per consentirgli di esprimere un consenso consapevole
e quindi efficace. In medicina legale si è più volte sottolineato che l'informazione non è esclusivamente
un dovere deontologico, bensì costituisce un distinto aspetto dell'opportuna osservanza delle
regole dell'arte medica. In altri termini, l'informativa costituisce per il medico un impegno,
ovvero un obbligo, che non si esaurisce nel momento della acquisizione del consenso al trattamento,
ma permea, nel quadro di una proficua alleanza terapeutica medico-paziente, l'intero percorso clinico,
fino a configurare per il sanitario un dovere di diligenza professionale che contraddistingue ogni passaggio
della sua prestazione al fine di evitare qualsiasi pregiudizio al paziente. La persona è titolare di diritti
indisponibili ed inviolabili, quali il diritto alla intangibilità della integrità psico-fisica.
Pertanto, ogni attività del medico che comporti un intervento sull'organismo del suo paziente, ivi inclusa
la somministrazione di farmaci, determinerebbe un'attività illecita in quanto -inevitabilmente- tange la
sfera dell'integrità psico-fisica dell'uomo. Stando così le cose si delineerebbe una grottesca situazione
di paralisi nel campo dell'attività sanitaria che inferirebbe una agghiacciante impossibilità di cura
del malato. Sennonché, la chiave di volta nata per uscire da questa imbarazzante empasses non
può non essere costituita da una prodromica (ed adeguata!) informazione della persona bisognosa di cure,
seguita dalla manifestazione del consenso della stessa all'atto intraprendendo del medico.
In tal modo, quindi, si realizza l'effettiva tutela del diritto alla intangibilità della sfera
psico-fisica dell'individuo unitamente alla legittimazione dell'intervento medico. Lo strumento
che permette la contemperazione dei diritti de quibus prende il nome di consenso informato,
traducendo in lecita una attività altrimenti illecita. Il consenso informato si colloca all'interno
del rapporto contrattuale medico-paziente e rappresenta un ulteriore onere a carico del medico
che non deve e non può assolutamente traslarsi in una mera clausola di stile, ossia in una formalità
che consente al medico di tenersi al riparo da eventuali strascichi giudiziari ovvero di avere la
coscienza pulita. Deve infatti rilevarsi che ciò di cui si parla non è quel "foglio" che l'anestesista
fa firmare frettolosamente al paziente dopo averlo edotto sull'anestesia o, nella migliore delle ipotesi,
dopo averlo benevolmente tranquillizzato.
Ciò di cui si parla non è un mero adempimento burocratico, un documento dal contenuto
incomprensibile per l'ammalato, bensì l'estrinsecazione del rapporto -innanzitutto umanitario- tra
il medico ed il paziente, che accompagna l'iter pre-trattamemto (accertamento diagnostico, terapia,
intervento operatorio) sino a suggellare quella "alleanza terapeutica" fondamentale per affrontare
il decorso della malattia.
Di norma il consenso è valido soltanto quando preveda tutti i seguenti requisiti:
deve essere richiesto per ogni trattamento e per ogni singola fase di esso;
la persona che dà il consenso, deve essere titolare del diritto;
la persona alla quale viene richiesto il consenso, deve possedere la capacità di intendere e di volere;
la persona alla quale viene richiesto il consenso, deve ricevere informazioni chiare e comprensibili sia sulla sua malattia sia sulle indicazioni terapeutiche;
in caso di indicazione chirurgica o di necessità di esami diagnostici invasivi, la persona alla quale viene richiesto il consenso, deve essere esaurientemente informata sulla caratteristica della prestazione, in rapporto naturalmente alla propria capacità di apprendimento;
la persona che deve dare il consenso, deve essere messa a conoscenza delle eventuali alternative diagnostiche o terapeutiche;
la persona che deve dare il consenso, deve essere portata a conoscenza sui rischi connessi e sulla loro percentuale di incidenza, nonché sui rischi derivanti dalla mancata effettuazione della prestazione;
la persona che deve dare il consenso, deve essere informata sulle capacità della Struttura sanitaria di intervenire in caso di manifestazione del rischio temuto;
il consenso deve essere scritto e controfirmato dal Paziente e dal Medico.
In questi ultimi tempi, la giurisprudenza di legittimità ha espressamente enunciato la necessarietà di
detti requisiti. Invero, il medico è tenuto a comunicare al paziente anche l'esito delle indagini
(per esempio, dell'ecografia), poiché tale informazione è una caratteristica essenziale della prestazione
sanitaria; il chirurgo estetico, invece, deve informare il paziente non solo e non tanto dei rischi in
genere dell'intervento programmato, ma anche delle concrete possibilità di conseguire il risultato sperato.
Pertanto, il consenso non accompagnato dai presupposti de quibus è da considerarsi viziato.
A questo punto è doveroso soffermarsi su quelli che sono i rudimenti che hanno condotto al riconoscimento
formale del consenso informato quale elemento imprescindibile di ogni trattamento terapeutico.
Primariamente, l'art.32 del Codice di Deontologia Medica del 1998 che sul piano deontologico sancisce,
con inedita e perentoria forza che, "il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica
senza l'acquisizione del consenso informato del Paziente". La Corte Suprema di Cassazione ha avuto
modo di statuire che in caso di cosiddetto "consenso disinformato" l'ammalato ha diritto ad adire le
vie giudiziarie per domandare il risarcimento dei danni. Non vi è dubbio che trattasi di danno di natura
non patrimoniale, che si affianca alle consuete voci di danno morale e di danno biologico.
Ma vi è da chiedersi se tale voce di danno sia risarcibile, sebbene non costituisca fattispecie di reato.
Secondo l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., "oltre al danno morale
soggettivo (quale transeunte perturbamento dell'animo) e al danno biologico
(quale lesione dell'integrità psicofisica della persona) dev'essere risarcito anche
il danno derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale, nei quali
rientra il diritto di autodeterminazione". Tale lesione, infatti,"rientra nella previsione
di cui all'art. 2059 c.c., volta a ricomprendere ogni danno di natura non patrimoniale
derivante da lesione di valori inerenti alla persona, secondo la recente interpretazione
della Cassazione (sentenze n. 8827/03 e n. 8828/03) e della Consulta (sentenza n. 233/03)".
Tale lesione, inoltre, inerisce la libertà di autodeterminazione dell'individuo, ossia la effettiva possibilità
di discernimento in ordine alla sottoposizione ad intervento operatorio o meno e/o alla adozione
del trattamento terapeutico, finanche comportando la scelta di una opzione pregiudizievole per
la propria salute. Pertanto, la libertà di autodeterminazione è tutelata dall'ordinamento giuridico
in quanto interesse costituzionalmente garantito: dall'art. 13, secondo il quale, La libertà personale
è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né
qualsiasi altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dall'autorità giudiziaria
e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati
tassativamente dalla legge, l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori,
che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li
convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva. Nonché, dall'art.32 secondo
cui, La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse
della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a
un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può
in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
È bene quindi precisare che, secondo un orientamento ormai consolidato, l'onere probatorio, circa
l'esatto adempimento della prestazione "de quo", incombe sul creditore (paziente), mentre
il debitore (professionista), dopo tale prova, è tenuto a giustificare ex art. 1218 c.c.
l'inadempimento attribuitogli dal creditore, stante i principi vigenti in materia di obbligazioni.
Nondimeno, la questione circa la qualificazione della responsabilità (contrattuale o meno)
sembra non rivestire fondamentale importanza perché: "qualora l'informazione sia mancata,
in tutto o in parte, si avrà una responsabilità del sanitario colpevole dell'omissione:
la quale sarà di natura contrattuale ovvero di natura extracontrattuale (precisamente:
precontrattuale ex art. 1337 c.c.), a seconda che si ritenga che il difetto d'informazione
rilevi sul piano dell'inadempimento di un contratto già pienamente perfezionato, o su
quello, semplicemente, delle trattative. (Cassazione Civile Sent. n. 7027 del 23-05-2001).
Il consenso informato è un atto medico, parte integrante della leges artis. Ne conviene
che sono ormai remoti i tempi in cui la professione sanitaria era considerata sacra ed inviolabile.
Vi sono, tuttavia, casi in cui risulta non agevole acquisire il consenso al trattamento terapeutico
da parte dell'ammalato. Ciò avviene nelle seguenti situazioni:
paziente di minore età;
paziente infermo di mente;
situazione di indifferibilità ed urgenza.
Nella prima ipotesi il consenso dovrà essere espresso da colui il quale esercita la patria potestà nei
confronti del minore, ossia da entrambi i genitori (o dal coniuge affidatario in caso di separazione);
qualora i genitori siano premorti il diritto spetta al tutore. Deve tuttavia rilevarsi che, nel caso in cui
il minore abbia raggiunto un grado di capacità volitive ed intellettive tali da poter manifestare un valido
consenso, non si potrà prescindere dalla sua volontà, che, se in contrasto con quella dei
genitori -o del tutore-, implicherà il ricorso all'Autorità Giudiziaria competente. Nella seconda
ipotesi il medico potrà procedere comunque al trattamento terapeutico ma,
dovrà "svolgere iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi è obbligato",
così come ai sensi della Legge 13 maggio 1978 n. 180. Nell'ultima ipotesi, invece, ovvero nei casi
di emergenza di Pronto Soccorso, il medico potrà attivarsi a prescindere dal consenso allorché ricorrano
i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p., a condizione che l'intervento sia proporzionale
al pericolo, ossia che la cura risulti adeguata. Comunque, in caso di ricovero,
il consenso deve far parte della cartella clinica del paziente. Acclarato che la mancanza del consenso
o che un consenso non adeguatamente informato viola il diritto costituzionalmente garantito
della libertà di autodeterminazione, occorre stabilire in quali circostanze ci si trova di fronte ad un
danno risarcibile. Anche in questo caso è necessario distinguere le conseguenze relative a tre diverse
ipotesi in concreto verificabili:
esiti negativi del trattamento terapeutico con colpa del medico ed in assenza di consenso od in presenza di un consenso non adeguatamente informato;
esiti negativi del trattamento terapeutico in assenza di colpa del medico ed in mancanza di consenso od in presenza di un consenso non adeguatamente informato;
esiti positivi del trattamento in assenza di consenso od in presenza di un consenso non adeguatamente informato.
Prima di procedere all'analisi delle ipotesi formulate è bene focalizzare l'attenzione sul concetto di colpa
nel caso di errore medico (a causa cioè di negligenza, imperizia od imprudenza). In presenza di negligenza il
medico sarà ritenuto responsabile allorquando abbia agito con superficialità o trascuratezza, ovvero con
inadeguata preparazione professionale (Cass. , sent. n. 2428 del 26 marzo 1990); in presenza di imprudenza,
ossia quando il medico si sia attivato con "temerarietà sperimentale", non ponderando accuratamente la
correlazione tra rischi e benefici; infine, in presenza di imperizia, ai sensi del disposto ex art. 2236 c.c.,
al professionista sarà ascrivibile soltanto un grado di responsabilità attenuata (la responsabilità del medico
ricorrerà solo in caso di colpa grave), qualora dimostri di non conoscere le nozioni fondamentali della
professione medica, nonché, di ignorare gli aggiornamenti clinici, diagnostici e terapeutici già sperimentai
nella prassi; sarà, invece, ritenuto non responsabile -per imperizia- quando il caso concreto presenta
caratteristiche di straordinaria eccezionalità e non è stato adeguatamente studiato nella scienza ovvero
sperimentato nella pratica (in tal senso, Cass., sentenza n. 6937 del 1° agosto 1996). La colpa del
medico deve essere allegata e provata da chi agisce in giudizio, attesa l'insufficienza del fatto-insuccesso della cura.
Nondimeno, la colpa del professionista sarà presunta quando ricorrono due
fattispecie normativamente tipizzate, ovverosia nel caso in cui il medico abbia espressamente promesso un
determinato risultato al paziente, oppure quando trattasi di trattamento terapeutico di mera routine (ovvero di
non difficile esecuzione). Tuttavia, la Corte Costituzionale, ha statuito che la valutazione del comportamento
del medico deve contemperare "due opposte esigenze: quella di non mortificare l'iniziativa del professionista
col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso d'insuccesso e quella inversa di non indulgere
verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista". Pertanto, in caso di errore medico
determinato da colpa del professionista (sempre che la prestazione non sia stata preceduta da un valido consenso
del paziente), accanto al danno biologico ed a quello morale sarà risarcibile anche il danno alla salute, quale
conseguenza mediata della violazione della libertà di autodeterminazione della persona, nonché il cosiddetto
danno esistenziale, purchè adeguatamente circostanziato e comprovato, qualora si verifichi una delle ipotesi di
cui sopra ed il danneggiato abbia subito uno sconvolgimento della propria vita di relazione. Nella seconda delle
ipotesi, in presenza di danno biologico ma in assenza di colpa medica, occorrerà valutare la concreta
possibilità di alternative diagnostiche o terapeutiche, delle quali il paziente non sia stato adeguatamente
informato. Inoltre, occorrerà tener conto della concreta possibilità che il paziente, adeguatamente informato,
avrebbe optato per la soluzione terapeutica alternativa, nonché, della percentuale di rischio connessa alla
esecuzione di tale prestazione, concretizzandosi, il danno, nella cosiddetta perdita della chance che il
paziente avrebbe avuto se il professionista avesse eseguito l'intervento non posto in essere, in quanto "la
chance, o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non è una
mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile
di autonoma valutazione, onde la sua perdita, id est la perdita della possibilità consistente di
conseguire risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura un danno concreto ed attuale". In
ambedue le fattispecie quindi, nulla questio, ma cosa accade quando ci si trova di fronte alla terza
ipotesi? Dalle recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità si evince che dalla lesione dell'interesse
costituzionalmente garantito alla autodeterminazione non consegue, in re ipsa, un danno risarcibile (su
tutte, cfr. Cass., sentenza n. 8827/2003), invero "non l'inadempimento da mancato consenso informato è di per sé
oggetto di risarcimento, ma il danno consequenziale, secondo i principi di cui all'art. 1223 c.c." (Cass.,
sentenza n. 14638/2004). È onere della parte, dunque, provare ed allegare che dalla lesione della libertà di
autodeterminazione (mancanza di consenso o di adeguata informazione) inferisca un pregiudizio alla salute.
Nondimeno, trattandosi di "pregiudizio che si proietta nel futuro (diversamente dal danno morale soggettivo
contingente […] sarà consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base degli elementi
obiettivi che sarà onere del danneggiato fornire" (Cass., sentenza n. 8827/2003). Tuttavia, la Suprema Corte si
era pronunciata in tal senso, disponendo che, l'obbligo di ottenere il consenso informato del paziente è del
tutto autonomo rispetto alla riuscita del trattamento sanitario, e perciò il medico, che abbia omesso di
raccogliere il consenso informato, incorre in responsabilità anche se la prestazione sanitaria viene eseguita in
concreto senza errori (Cass. , sentenza n. 6464 dell'8 luglio 1994). Deve invero rilevarsi che certa dottrina
propende per la risarcibilità della libertà di autodeterminazione lesa a prescindere dalla lesione del diritto
alla salute. Difatti, se per il risarcimento del danno di natura patrimoniale la Corte di Cassazione ricorre al
termine riparazione, il ristoro del danno non patrimoniale rifugge dalla succitata funzione. Di talchè, la mera
preclusione terminologica del sintagma "riparatorio" (che mal si concilierebbe con il risarcimento di un danno
difficilmente quantificabile in termini monetari) verrebbe comodamente trasmodata dalla funzione invece
satisfattoria e consolatoria del ristoro del danno non patrimoniale. È stato poi sostenuto che negare
una autonoma risarcibilità della lesione dell'interesse costituzionalmente garantito alla libertà di scelta
terapeutica, si tradurrebbe in un clamoroso ritorno alle origini della professione medica, quando questa
era quasi divinizzata al punto che il paziente si "riponeva nelle mani del medico", il quale era assolutamente
libero di optare per la soluzione terapeutica ritenuta più giusta al di là delle volontà dell'ammalato.
Medesimamente, il Tribunale di Venezia aveva riconosciuto il diritto al risarcimento di una paziente per
la lesione del diritto alla autodeterminazione, stante la omessa acquisizione del consenso, affermando
icasticamente che "l'operato dei sanitari, anche se non censurabile sul piano della modalità di esecuzione
dell'intervento, comunque ha finito per espropriare l'attrice del diritto a scegliere della
propria esistenza" (Trib. di Venezia, sentenza del 4 ottobre 2004). Infine, non è per mero orientalismo
che si cita una pronuncia della Corte Suprema del Giappone del 29 febbraio 2000 che aveva riconosciuto
il diritto al risarcimento di una paziente Testimone di Geova che non era stata doverosamente
informata sulla effettuazione delle trasfusioni di sangue in caso di necessità. In conclusione, se il recente
indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione appare avallato dalla necessità di evitare duplicazioni
risarcitorie, condannando iniziative giudiziarie dal carattere esclusivamente truffaldino, l'apodittica
negazione del diritto al risarcimento in caso di (esclusiva) lesione della libertà di autodeterminazione,
scrive inevitabilmente una pagina anacronistica ed anticostituzionale, attesa la riconosciuta libertà della
persona di scegliere (anche negativamente) in ordine al proprio destino.
Avv. Cosimo Prete
Giurista presso la Cattedra di Medicina Legale - Università degli Studi di Siena e dell'European
Institute of Legal Medicine and Forensic Sciences.