Corte di Cassazione - Sentenza n. 21806/2007
Attività dermatologica non autorizzata
Cassazione - Sezione terza penale - sentenza 18 aprile - 5 giugno 2007, n. 21806
Presidente Papa - Relatore Petti Pm Izzo - conforme - Ricorrente C.
In fatto
Con sentenza del 4 maggio del 2004, il tribunale di Lecce ha condannato la Sig.ra XXX alla
pena di euro 400,00 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali, quale responsabile,
in concorso di circostanze attenuanti generiche, del reato di cui all'articolo 193
Tuls approvato con RD 27 luglio 1934 n 1265, per avere aperto in Lecce, senza l'autorizzazione
sanitaria, un ambulatorio di medicina dermatologica ed estetica.
Fatto accertato il 16 marzo del 2000 in Lecce. Ricorre per cassazione il difensore dell'imputata
deducendo: la violazione della norma incriminatrice e manifesta illogicità della motivazione,
in quanto l'attività svolta dalla propria assistita non poteva essere definita medica per
la presenza di un solo apparecchio per la depilazione laser trattandosi di uno
strumento di depilazione che svolgeva solo una funzione estetica;
La prescrizione del reato.
In diritto
Il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza dei motivi.
In punto di fatto si è accertato che l'istituto gestito dall'imputata praticava trattamenti di medicina
estetica di varia natura anche mediante apparecchiatura laser per la depilazione. Esso era reclamizzato
come centro di medicina estetica e dermatologica. In sede di sopralluogo gli investigatori hanno
acquisito un biglietto in cui si legge. "Laser Point - Centro medico Specializzato in depilazione
permanente - Consulenza medica dermatologica". In base all'articolo 193 del R. D n. 1265 del 1934
senza l'autorizzazione sanitaria non si possono aprire o mantenere in esercizio, ambulatori, case o
istituti di cura medico- chirurgica o di assistenza ostetrica. Come già statuito da questa corte le
istituzioni sanitarie private che devono essere autorizzate sono quelle dotate di attrezzature, ancorché
minime, in cui si esercita l'attività medica con finalità speculativa da parte di operatori
privati (cft Cass. 4882; 17434 del 2005). In altre parole l'autorizzazione è richiesta per tutte le
strutture che abbiano un'interna organizzazione di mezzi e di personale diretta alla cura di talune
malattie anche di natura dermatologica, le quali in relazione alla loro funzione assumono
un'individualità propria distinta da quella dei sanitari che ivi prestano la propria opera.
Sono esclusi dal l'autorizzazione gli studi dei professionisti liberi dove il singolo sanitario
esercita la propria professione e dove si accede normalmente per appuntamento.
Nella fattispecie la prevenuta gestiva come imprenditrice una struttura da lei stessa definita
"Centro medico specializzato in depilazione permanente consulenza medica-dermatologica". Appare
quindi evidente che si trattava di locali ove si svolgeva anche attività di medicina estetica e
dermatologica per fini imprenditoriali e, perciò, occorreva l'autorizzazione sanitaria. Il reato non si è prescritto perché ha natura permanente giacché la condotta antigiuridica si perpetua fino a quando si
esercita l'attività senza la specifica autorizzazione. Quella indicata nel capo d'imputazione è la
data del l'accertamento e non della consumazione del reato. Secondo l'orientamento di questa corte, nell'ipotesi
in cui il capo di imputazione contenuto nel decreto di rinvio a giudizio indichi esclusivamente la data
di accertamento di un reato permanente, senza nessun riferimento a quella di cessazione della permanenza,
il giudice del dibattimento deve appurare, attraverso l'interpretazione di detto capo, considerato
nel suo complesso, se esso riguardi una fattispecie concreta la quale, così come descritta, sia
già esaurita prima o contestualmente all'accertamento medesimo, ovvero una condotta
ancora in atto: in tal caso, poiché il capo d'imputazione ascrive all'imputato una condotta
che, lungi dall'essersi già esaurita, è ancora perdurante alla data in esso indicata, deve ritenersi
che la contestazione comprenda anche l'ulteriore eventuale protrazione della permanenza, di cui pertanto
può tenere conto il giudice del dibattimento ad ogni effetto penale, senza che sia richiesta a tale
fine un'ulteriore contestazione da parte del pubblico ministero. In tale caso la permanenza cessa con
la sentenza di condanna (cfr per tutte Cass. Sez. unite 11 novembre 1994, Polizzi). D'altra parte,
il difensore non ha indicato una data anteriore alla sentenza di condanna. In ogni caso, quand'anche il
reato si considerasse consumato alla data dell'accertamento, l'inammissibilità del ricorso per la
manifesta infondatezza del primo motivo impedirebbe di dichiarare la prescrizione maturata dopo la
sentenza impugnata, secondo l'orientamento espresso dalle Sezioni unite di questa corte con le
sentenze n. 32 del 2000; n. 33542 del 2001, n. 23428 del 2005).
Dall'inammissibilità del ricorso discente l'obbligo di pagare le spese processuali e di versare
una somma, che stimasi equo determinare in € 1000,00, in favore della cassa delle ammende,
non sussistendo alcuna ipotesi di carenza di colpa della ricorrente nella determinazione della causa
d'inammissibilità secondo l'orientamento espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 186 del 2000.
PQM
La Corte letto l'art. 616 c.p.p. dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente
al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di € 1000,00 in
favore della cassa delle ammende.
Fonte: Studio Legale Law
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